Meritocrazia in Italia, una battaglia di chi?

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La meritocrazia viene spesso evocata come pilastro di una società giusta e competitiva, ma in Italia questo concetto sembra più un ideale da proclamare a parole che una pratica consolidata. Per capire quanto il merito conti davvero nella selezione della classe dirigente, è utile considerare alcuni indicatori chiave che raccontano la situazione del Paese negli ultimi anni.

Secondo il Meritometro del Forum della Meritocrazia, che valuta trasparenza, pari opportunità, qualità del sistema educativo e mobilità sociale, l’Italia si colloca stabilmente all’ultimo posto tra dodici Paesi europei. Nel 2015 il punteggio era di circa 26 su 100, mentre nel 2024 è salito appena a 27. Un progresso minimo, soprattutto se confrontato con Paesi come la Finlandia, che superano i 66 punti. Questo dato evidenzia una stagnazione culturale e istituzionale che penalizza il merito.

L’Indice di Percezione della Corruzione di Transparency International mostra un percorso di miglioramento rispetto agli anni Novanta: nel 1995 l’Italia registrava un punteggio di 29,9, mentre nel 2021 ha toccato il massimo storico di 56. Tuttavia, nel 2024 si è verificata una lieve flessione a 54. Nonostante i progressi, il Paese resta lontano dagli standard dei partner europei più virtuosi, segno che la trasparenza non è ancora un valore pienamente radicato.

I dati di ISTAT sulla mobilità sociale e di OCSE sull’educazione confermano una forte immobilità sociale. Un figlio di laureato ha il 61% di probabilità di laurearsi, contro il 30% di un figlio di diplomato e appena il 18% di chi proviene da famiglie con sola licenza media. Questi valori, rimasti invariati negli ultimi anni, indicano che il merito non basta: il contesto familiare continua a determinare le opportunità di crescita.

Il Gini Index della Banca Mondiale, che misura la disuguaglianza economica, oscilla tra 0,32 e 0,36 da oltre vent’anni, segnalando una stabilità che non favorisce la mobilità sociale. Gli indicatori di governance della World Bank mostrano miglioramenti lenti e valori medi rispetto alla media europea, con criticità legate all’efficacia delle istituzioni e alla capacità di attrarre talenti.

In Italia la meritocrazia continua a essere più un ideale che una realtà. La “fuga dei cervelli” è tema ricorrente nei dibattiti e nelle campagne elettorali, ma alle parole non seguono i fatti. Nel frattempo, corruzione, scarsa mobilità sociale e procedure poco trasparenti continuano a ostacolare la selezione basata sul merito. Per invertire la rotta servirebbero riforme strutturali: investimenti nell’istruzione, sistemi di valutazione chiari e politiche che favoriscano trasparenza e responsabilità. Soprattutto, servirebbe che qualcuno iniziasse a dare il buon esempio.

Negli anni passati Giorgia Meloni e il centrodestra hanno fatto della meritocrazia una bandiera. A parole. Nei fatti, l’azione di governo sembra dominata dalla logica dell’occupazione sistematica degli spazi di potere, con nomine basate sulla fiducia più che sulle competenze. Curricula imbarazzanti e scelte difficilmente giustificabili in chiave meritocratica sono sotto gli occhi di tutti: basta guardare qualche servizio di Report per farsi un’idea.

E il centrosinistra? Il tema del merito è tradizionalmente meno popolare, complice la paura che diventi un grimaldello per aumentare le disuguaglianze. Così diversi preferiscono puntare sull’appiattimento, senza considerare che il risultato è stagnazione e immobilità sociale. Anche tra chi si dichiara sensibile al merito, gli esempi virtuosi scarseggiano. Una maggiore capacità di autocritica – assente in tutta la politica – aiuterebbe a riconoscere che non mancano casi poco edificanti, che alimentano la disaffezione degli elettori.

Il calo della partecipazione al voto è ormai evidente, come confermano le ultime elezioni regionali. Cosa potrebbe riportare gli astenuti alle urne? Forse vedere qualcuno che premia davvero il merito nella selezione della classe dirigente. La battaglia per la meritocrazia non si vince con gli slogan, ma cominciando a dare il buon esempio. Capirlo sarebbe importante, anche in prospettiva elettorale.

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